19–28 minutes
  1. (In)consapevolezza geopolitica
    1. Dovremmo impegnarci molto di più in favore dell’Ucraina
    2. Dobbiamo batterci per il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani
    3. Dobbiamo combattere il leader antidemocratici
    4. Dobbiamo promuovere il modello occidentale
  2. Che (non) fare quindi?
    1. Contrasto deciso delle infiltrazioni delle potenze straniere
    2. Riprendersi un po’ di sovranità (con il permesso del padrone)

Da quanto illustrato in questo recente post — di cui quello che stai leggendo è in qualche modo la naturale continuazione —, si evince come, nella porzione di mondo che ha ancora consapevolezza della Storia, l’economia sia sempre subordinata agli obiettivi geopolitici. Per noi europei occidentali, invece, economicisti fino all’osso, è inconcepibile che una guerra, un’invasione, un cambio di regime non siano motivati da ragioni che hanno a che fare con il vil denaro. Motivo per cui siamo tuttora fermamente convinti che gli USA si interessino al Venezuela per il petrolio come è stato per l’Iraq nel recente passato; che ficchino il naso a Taiwan per via dell’industria dei semiconduttori; che si siano riappropriati del Canale di Panama sottraendolo al controllo cinese per via dei pedaggi che si pagano per transitarci; e via dicendo1. La priorità del perseguimento degli scopi strategici è talmente ben presente alle nazioni geopoliticamente compiute che non c’è principio economico che tenga. Se si è obbligati2 a fare una certa scelta funzionale al raggiungimento di un obiettivo strategico, questa va perseguita anche se, dal punto di vista economico, è una bestemmia. Economicamente parlando, che senso ha per gli USA aver finanziato l’Argentina di Milei con 20 miliardi di $ in un momento in cui il popolo americano sta facendo i conti con un gravissimo problema di affordability, talmente evidente che persino Trump ha dovuto ammetterlo, seppur a denti stretti? Che cosa ci hanno guadagnato gli Stati Uniti ad inondare di liquidità le nazioni sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale per ricostruirne le economie e farle prosperare? Qual è stato il vantaggio per lo zio Sam di aver smantellato il proprio tessuto industriale per favorire la crescita economica dei paesi satelliti? E via dicendo.

Chi non ha la capacità di guardare oltre una visione puramente economicistica si sforzerà di trovare delle spiegazioni razionali3 — di natura ovviamente economica — a queste scelte apparentemente masochistiche. Nel caso della distruzione della propria industria manifatturiera, ad esempio, la pronta e scontata risposta è la seguente: hanno deciso di puntare sui servizi a più alto valore aggiunto, lasciando che siano gli altri paesi a produrre i beni materiali che, in virtù del loro bassissimo costo del lavoro, si possono importare comodamente, pagandoli un pezzo di pane. Classica lettura da teoria economica ortodossa per cui è cosa buona e giusta che un bene venga prodotto da chi è più efficiente nel farlo, giusto? Questa cosa, economicamente parlando, ha funzionato talmente bene che l’americano medio vive nel lusso sfrenato che ho descritto nel post precedente.

(In)consapevolezza geopolitica

Tornando a parlare di cose serie che lasciano un segno nei libri di Storia, la primissima cosa da fare, propedeutica per tutto quello che viene poi, è prendere consapevolezza del nostro posizionamento.

L’Europa occidentale, per il momento, vive una condizione di eccezionale benessere, valutato secondo i canoni occidentali, ottenuto proprio sfruttando l’economia in senso economicistico (mi si perdoni il gioco di parole)4. Una ricchezza e una qualità di vita così diffuse in un’area così ampia (stiao parlando di circa 400 milioni di persone) non credo abbiano precedenti nella storia dell’umanità. A parte il fatto che, come spesso capita per le cose che abbiamo avuto a disposizione per tutta la vita, le diamo colpevolmente troppe volte per scontate, è radicata la genuina convinzione che noi stessi ne siamo stati i principali artefici e non il fatto di aver beneficiato grandemente della pax americana decisa e impostaci da altri. Questo, a mio parere, è il primo, fondamentale, imprescindibile fatto di cui dovremmo prendere consapevolezza. Capire questo posizionamento geografico-temporale quindi geopolitico è il presupposto da cui tutte le ulteriori considerazioni discendono. Provo ad esporre le principali, usando come spunto le varie obiezioni che ho ricevuto nel corso delle chicchierate menzionate nel post precedente.

Dovremmo impegnarci molto di più in favore dell’Ucraina

Su questo punto c’è molto da dire. First things first, smontiamo l’affermazione secondo cui “abbiamo fatto poco” per sostenere l’Ucraina in seguito all’invasione russa. Sapendo perfettamente che i dati dall’AI di Google non vanno presi per oro colato, proviamo a dare un’occhiata a che dice:

  • UE
    • Totale Aiuti: Dall’inizio del conflitto, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito oltre 187 miliardi di euro complessivi.
    • Iniziative Militari: I paesi europei della NATO hanno lanciato l’iniziativa “Purl” per acquistare collettivamente armi dagli USA e colmare le carenze nelle forniture a favore di Kiev.
  • USA
    • Fino all’inizio del 2025, gli USA hanno stanziato circa 174 miliardi di dollari in aiuti supplementari per l’Ucraina.

A questo va aggiunto tutto il supporto militare e di intelligence sul campo che, per ovvi motivi, non è dato sapere in dettaglio (non sono un esperto militare, ma credo sia abbastanza irrealistico pensare che gli ucraini abbiano fatto tutto da soli nel portare a termine con successo i numerosi attacchi chirurgici in territorio russo contro infrastrutture e mezzi militari a cui abbiamo assistito). Scusate se è poco. Vorrei far notare a tutti i piccoli von Clausewitz — l’Italia non è forse il paese dei 60 milioni di Commissari Tecnici della nazionale? — che, senza questo tipo di supporto, l’Ucraina sarebbe probabilmente caduta nel giro di pochi giorni come era nelle aspettative del Cremlino.

Come si può pensare seriamente di spingersi oltre? Ricordo a chi è in favore di un atteggiamento più interventista che noi non abbiamo il lusso degli USA di trovarci, geopoliticamente parlando, su un altro pianeta. Non siamo protetti su 3 lati su 4 da due oceani e da un paese ampiamente disabitato e inoffensivo come il Canada. Siamo invece a un tiro di schioppo dal soggetto che vuole rinverdire i fasti dell’impero russo e che, pur con tutte le note difficoltà, detiene il primo arsenale atomico al mondo. E anche sugli altri versanti siamo confinanti — geograficamente o di fatto — con paesi storicamente nostri nemici che possono influenzare facilmente il nostro accesso agli oceani, condizione per noi vitale stante la nostra totale dipendenza dalle esportazioni (a livello mondiale, più del 90% del merci viaggia per mare). Per usare un eufemismo, occorre quindi muoversi con estrema cautela ed attenzione. E’ un atteggiamento meschino e cinico? Certo che lo è. La geopolitica è questa schifosa roba qui.

Allargando la prospettiva ad una più ampia riflessione sul tema bellico, prendo spunto dal fatto che, all’interno del partito a cui sono iscritto, ultimamente si è parlato piuttosto spesso di guerra. E, con mio rammarico, con una preoccupante faciloneria da parte di molti Gen Z. Molte persone in quella fascia d’età non sarebbero contrarie sia ad un rafforzamento deciso delle nostre forze armate, sia ad un intervento militare da parte di nostre truppe a sostegno dell’Ucraina. Scavando un po’ più a fondo, si capisce l’illusione che alberga nella mente di queste persone. Sono genuinamente convinte che, per (ri)proporsi come forza militare credibile, al nostro paese sia sufficiente investire in un relativamente piccolo ma equipaggiatissimo esercito di ben addestrati professionisti. Se uno volesse cogliere l’occasione per tirare in ballo i soliti stereotipi sui giovani d’oggi, potrebbe dire che siamo di fronte ad un classicissimo e italianissimo esempio di “armiamoci e partite” in chiave moderna. Della serie, andateci voi, cari professionisti, a rischiare la pelle al fronte mentre io me ne sto qui comodo a sorseggiare il mio irrinunciabile aperitivo serale. Cari ragazzi, purtroppo non funziona così. Molti di voi sono così giovani da non aver avuto modo, per ovvi motivi anagrafici, di sentire i racconti dalla viva voce di chi ha vissuto la guerra sulla propria pelle. È fisiologico che, più il tempo passa, più il ricordo collettivo di cosa sia la guerra purtroppo sbiadisca, nonostante le numerose e meritorie iniziative per tenerlo vivo. Invito tutti, prima di lanciarsi in dichiarazioni affrettate su un tema così delicato, a fare queste cose:

  1. Andare a qualche presentazione di libri che descrivono l’esperienza di chi la guerra l’ha fatta (meglio sarebbe leggerli naturalmente, ma capisco che questo comporterebbe rinunciare a troppi aperitivi con gli amici, sacrificio insostenibile per molti). Tra i titoli, c’è l’imbarazzo della scelta. Tra i tantissimi, mi permetto di suggerire questo: Dio mi deve chiedere perdono (Alessandro Fantin).
  2. Farsi spiegare da qualche esperto di faccende militari cosa significhi sostenere uno sforzo bellico per una popolazione. Come vediamo tutti i giorni tramite le immagini che ci arrivano dall’Ucraina e dalla Palestina, la guerra comporta un carico di sofferenza devastante, prima di tutto psicologica, per tutta la popolazione, non solo per chi è impegnato direttamente nelle operazioni militari.
  3. Se possibile, visitare qualche campo di concentramento. Nella pacifica e ridente Europa non è difficile trovarne uno nelle vicinanze. Naturalmente, prima di farlo, meglio prepararsi a dovere onde evitare spiacevoli “gaffe” di questo tipo.

Fatto questo, ne riparliamo.

Dobbiamo batterci per il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani

I confronti più accesi — sempre nel rispetto di chi la pensa diversamente — che ho avuto nel corso delle discussioni a cui ho fatto riferimento nel post precedente sono stati proprio in merito al delicato rapporto tra geopolitica e morale. Si tratta di un tema molto delicato perché fa emergere inevitabilmente il conflitto interiore tra le nostre convinzioni morali come esseri umani e le scelte cui siamo costretti come collettività se vogliamo perseguire i nostri interessi strategici. Ancora una volta, ho dovuto registrare con sorpresa che in molte persone ci sono delle convinzioni tanto nobili quanto ingenue, a mio parere.

Una delle credenze radicate tra noi occidentali è che alti principi quali il diritto internazionale e i diritti umani esistano realmente, cioè non solo nelle ristrette cerchie istituzionali e accademiche che se ne occupano. In geopolitica purtroppo esiste una sola legge, quella del più forte. Ne abbiamo evidenza quotidiana senza soluzione di continuità. L’ultimo esempio eclatante è la tregua in Palestina, ottenuta nel preciso momento in cui gli USA hanno deciso che poteva bastare così, bloccando quindi la furia di Israele. Per il momento. Esattamente come nei confronti dell’Italia, l’America può imporre la propria volontà sullo Stato ebraico senza sparare nemmeno una pallottola, tale è la posizione di forza che ha. E, come è successo mille altre volte compresa naturalmente la liberazione dell’Europa dal nazifascismo, la decisione americana non è certo stata pilotata da un nobile pacifismo — cavalcato abilmente da Trump per rafforzare la sua candidatura al Nobel per la pace, ormai diventata a quanto pare una sua senile ossessione — ma dal solito, noiosissimo perseguimento dei propri interessi strategici, in questo momento storico guidati dal contenimento della Cina.

Dobbiamo combattere il leader antidemocratici

L’aver tirato in ballo Trump mi permette di introdurre un altro topic che ricorre puntualmente, cioè il “leadearismo”. Con questo intendo identificare i comportamenti di nazioni intere con le scelte dei leader pro tempore che le rappresentano. Secondo questa fallace visione, collettività composte da decine, centinaia o addirittura migliaia di milioni di persone si muoverebbero in una direzione o nell’altra a seconda degli umori di una singola persona, dimenticandosi totalmente del fatto lapalissiano che le classi dirigenti sono sempre manifestazione del tessuto sociale che le esprime e mai viceversa. In base a questa bizzarra teoria, basterebbe quindi spodestare Putin per far diventare la Russia una socialdemocrazia modello sullo stile dei paesi scandinavi o sarebbe sufficiente che un democratico vincesse le elezioni americane del 2028 per trasformare dall’oggi al domani gli USA in una copia del Canada. Le traiettorie di queste potenze prescindono evidentemente non solo dal governo pro tempore che ne è a capo, ma anche dalla forma istituzionale che si danno, cioè da tutti quegli aspetti sovrastrutturali che, come tali, sono visibili, ma non incidono in profondità. La postura degli USA sul piano geopolitico certo non cambia se alla Casa Bianca c’è Obama o Trump perché è legata alla natura intima della società americana. Solo un cambiamento profondo di quest’ultima — cosa che non può certo avvenire in pochi anni — può avere degli effetti a livello strutturale. Questo spiega perché, per rimanere all’esempio americano, al variare del colore dell’amministrazione di turno, al di là di qualche cambio di facciata amplificato a dismisura dalla narrazione dei mass media, il posizionamento degli USA non sia cambiato di un millimetro. Per tornare al caso della guerra in Medio Oriente, la cruda, cinica e amorale domanda che ci si deve porre è: al netto del disgusto che come esseri umani proviamo nel vedere massacrati i Palestinesi, è nell’interesse del nostro paese che quel conflitto continui (quindi con la inevitabile vittoria militare di Israele) o è per noi più favorevole trovare una soluzione per fermarlo? So che è abominevole porre la questione in questi termini, ma se si vuole uscire dal post-storicismo purtroppo occorre essere capaci anche di assumere questo approccio. Cosa che naturalmente non è da tutti.

Dobbiamo promuovere il modello occidentale

Un altro evergreen è l’incredibile e diffusissimo convincimento circa la legittimazione — che in alcune persone trascende addirittura in un dovere morale! — dell'”Occidente” a fare il possibile per diffondere e promuovere il nostro modello in tutto il mondo, in quanto “espressione della migliore civiltà che l’uomo abbia mai costruito, numeri alla mano”.

A parte far notare che l’Occidente è un universo molto più disomogeneo di quanto siamo portati a credere (vedere il post precedente per maggiori dettagli), questa posizione, anche nelle persone che la sostengono motivate dalle migliori intenzioni, è ottusa nonché massimamente razzista. Ottusa perché figlia di una specifica visione del mondo — la nostra, appunto — che si assume essere per definizione quella “giusta”. Il solo fatto di adottare un criterio basato su metriche misurabili per stabilire quale società sarebbe migliore o peggiore è indicativo. Questo è chiaramente un criterio per noi del tutto assodato (più o meno…), ma non è affatto scontato che sia così anche per culture profondamente diverse dalla nostra. Razzista perché, più o meno velatamente, sottintende ancora una volta la nostra superiorità, come se secoli di orrori colonialisti in giro per il mondo non ci avessero insegnato nulla. Come possiamo pretendere di insegnare come stare al mondo a culture millenarie che, per giunta, in svariati casi hanno conservato intatta una perfetta consapevolezza geopolitica a differenza nostra? Come possiamo pretendere di insegnare agli altri come vivere quando il nostro modello ci inculca fin da piccoli che il “successo” si misura dalla quantità di beni materiali che riusciamo ad accumulare, quando al mondo esistono popolazioni come ad esempio i Bajau che hanno nell’esatto opposto uno dei cardini fondamentali della loro esistenza?

Un altro clamoroso esempio è l’entrata nel WTO della Cina. Convinti che questo passaggio avrebbe miracolosamente occidentalizzato l’Impero di Mezzo, trasformandolo in un paese post-storico dedito al benessere materiale (e quindi innocuo geopoliticamente), gli USA ne agevolarono l’ingresso nella World Trade Organization, infischiandosene delle libertà civili e politiche, dei diritti umani, ecc. A distanza di un quarto di secolo, è davanti agli occhi di tutti quanto errato sia stato questo calcolo. Non solo la Cina non si è occidentalizzata, ma addirittura è diventata, nel giro di pochi decenni, una potenza tale da minacciare l’egemonia degli Stati Uniti. E questo proprio grazie alle possibilità conseguenti all’ingresso nel WTO, cioè:

  • Sfruttando magistralmente la possibilità di vendere le proprie merci ovunque nel mondo senza rispettare le regole che gli altri paesi osservano.
  • Assorbendo know-how dalle aziende occidentali accecate dalla possibilità di fare lauti guadagni (nel breve periodo) che non ci hanno pensato due volte a costituire delle joint venture in Cina.

Che (non) fare quindi?

Al termine del post menzionato all’inizio di questo articolo, ci si chiedeva che cosa ha senso fare per l’Italia. La risposta che va bene per tutte le stagioni è “i nostri interessi”. Per declinare questo proposito in azioni concrete bisogna però prima essere in grado di esplicitarli, cosa affatto scontata. Inoltre, prima di provare ad abbozzare una risposta, va ricordato che tutte le evidenze dimostrano come rilevanza geopolitica e benessere economico diffuso (in senso post-storico) sono obiettivi che generalmente spingono in direzioni opposte. Spiacente, nemmeno in questo caso ci sono pasti gratis. Tornando a noi, la prima cosa che a mio parere dobbiamo chiederci è, nei limiti delle costrizioni a cui dobbiamo sottostare, se vogliamo continuare ad essere un paese completamente post-storico e quindi dedito all’economia e alla qualità della vita oppure se vogliamo, rinunciando a parte del nostro benessere, a tornare a contare qualcosa. La mia opinione è che si dovrebbe trovare un giusto equilibrio tra le due per il semplice fatto che perderemo in ogni caso il nostro benessere se continueremo a non contare nulla perché non possiamo assumere che l’ala protettrice degli USA duri in eterno. Il tentativo di questo paragrafo è quindi quello di abbozzare una lista di possibili dos e don’ts per il nostro paese coerente con quanto illustrato in precedenza.

Contrasto deciso delle infiltrazioni delle potenze straniere

In queste ultime settimane, si è accesa una “polemica” allucinante. Da più parti si è accusata Limes — storica rivista italiana di geopolitica — di essere un organo di propaganda russa nel nostro paese. Le “pistole fumanti” a supporto di questa bizzarra tesi sarebbero:

  • Il fatto che, nelle cartine pubblicate nella rivista, la Crimea venga colorata con lo stesso colore della Russia.
  • Nella rivista trovano spazio articoli di autori russi che espongono il punto di vista di Mosca rispetto alla guerra in Ucraina.
  • Quattro persone hanno lasciato contemporaneamente il “comitato scientifico” della rivista.

Per quanto riguarda il primo punto, è lapalissiano che, trattandosi di cartine geopolitiche, queste correttamente fotografino la situazione in campo e non quella che dovrebbe essere secondo i confini ufficiali antecedenti all’annessione della Crimea. La Russia ha prima annesso la Crimea e poi invaso l’Ucraina proprio perché tra i suoi obiettivi c’è la modifica di questi confini. Se non viene cartografata la situazione effettiva corrente, come può la rivista tentare di spiegare al lettore quello che sta succedendo?

Anche il secondo punto denota, da parte di chi lo sostiene, una scarsa comprensione di come funziona l’analisi geopolitica. Uno dei pilastri di questa disciplina è il tentativo — nei limiti dell’imperfettibilità degli esseri umani, inevitabilmente condizionati dai propri bias culturali — di osservare i fatti con gli occhi delle diverse collettività confliggenti. Altrimenti, come si può avere una visione d’insieme e cercare di collegare i puntini per dare un’interpretazione completa e coerente di fatti così complessi? La fallacia logica di questa argomentazione è doppia: prima di tutto, l’implicazione “ci sono articoli di russi, quindi Limes fa propaganda russa” è priva di fondamento perché bisognerebbe vedere il contenuto di quegli articoli e non fermarsi alla nazionalità degli autori. Secondariamente, se si accetta questa assurda logica, si drovrebbe arrivare alla conclusione diametralmente opposta, cioè che Limes fa propaganda atlantista visto che il 90 e oltre per cento degli articoli sono scritti da autori occidentali.5

Per quanto concerne, infine, il terzo argomento, rimando a questo video che contestualizza l’episodio e spiega molto meglio di quanto possa fare io i vari aspetti della questione, fermo restando che naturalmente una persona possa liberamente interrompere la collaborazione con una testata nel momento in cui si trovasse in totale disaccordo con la linea editoriale. Certo che fa sorridere chi dice di essersi trovato in questa situazione per 20 anni prima di decidere di farlo.

Digressione

Ho riportato questa terza argomentazione non tanto per dimostrare quanto facilmente si possa smontare, quanto per fare una digressione su un fenomeno non strettamente legato all’argomento del post, ma che spunta sempre più spesso in numerose discussioni e che meriterebbe un articolo a sé da quanto sta diventando preoccupante. Mi riferisco all’uso dell’aggettivo “scientifico” che ormai viene speso con irrisoria superficialità come nel caso del comitato della rivista Limes. Il tutto è partito qualche decennio fa, quando si sono diffusi metodi di ricerca tipici delle scienze dure (ad esempio quelli statistici) in svariate discipline sociali. Conseguentemente, queste ultime sono state sottoposte ad una meticolosa opera di rebranding, tant’è che oggi si parla di scienze economiche, scienze filosofiche, scienze psicologiche, ecc. Non ho idea se questa operazione sia stata motivata da un complesso di inferiorità rispetto alle scienze propriamente dette (ne parlo anche nel mio elaborato del master appena concluso, dopo averne avuto conferma diretta da persone che si occupano di filosofia professionalmente) o da un’opera di marketing per risultare più attraenti nei confronti degli studenti che devono scegliere a quale facoltà iscriversi. Sta di fatto che questa operazione linguistica sta facendo più danni della grandine. Molte persone, ad esempio, si aspettano erroneamente che tutto ciò che viene bollato come “scientifico” si riferisca per definizione a fenomeni governati da leggi di natura e che, pertanto, abbia capacità previsionali analoghe a quelle delle scienze dure. Tornando all’esempio da cui sono partito, si pensa maldestramente che la geopolitica — disciplina sociale per eccellenza e quindi intrinsecamente sfuggente, scivolosa, incerta in conseguenza dei fenomeni che osserva e che cerca di interpretare — sia una scienza che, a partire da certe condizioni note, possa prevedere con precisione matematica cosa succederà nel futuro!

I fenomeni visibili di infiltrazione che vanno contrastati con decisione ci sono, ma non sono certo gli articoli di Limes (di cui, tra parentesi, tutti gli articoli sono firmati). Mi riferisco, ad esempio, alle famigerate “stazioni di polizia” cinesi in territorio italiano o ai legami di importanti partiti con il Cremlino. Altresì, vanno naturalmente evitate sciocchezze come portare a spasso per l’Italia un contingente di militari russi come accadde durante l’epidemia di COVID. Ho parlato di fenomeni visibili perché gli esempi che ho citato si riferiscono ad eventi di dominio pubblico. Va da sé che c’è poi un’importantissima attività portata avanti dalle nostre forze dell’ordine e dai nostri servizi segreti di cui naturalmente non è dato sapere nulla, ma che ogni tanto emerge in superficie come in questi giorni.

Riprendersi un po’ di sovranità (con il permesso del padrone)

Come dicevo nel post precedente, la situazione creatasi in seguito all’invasione dell’Ucraina ci ha parzialmente destato. Nonostante gli americani ci stiano dicendo da diversi lustri che è tempo che si impari a camminare un po’ con le nostre gambe, solo ora cominciamo a capire cosa questo significhi per davvero. Se vogliamo quindi riconquistare un minimo di autonomia geopolitica, questo è il momento giusto di farlo, visto che si è aperta una finestra di opportunità eccezionale (ne ho parlato già qui). In sintesi, gli USA ci stanno dicendo in tutti i modi che, non avendo le forze per occuparsi in prima persona di tutti i fronti aperti, è opportuno che ci dobbiamo prendere in carico una parte del lavoro da svolgere nel teatro europeo, in modo che loro possano concentrarsi sul fronte indopacifico, oggi l’area di gran lunga più importante del mondo, geopoliticamente parlando. Cosa significa questo in pratica? A mio parere, la primissima cosa da fare, prima di vaneggiare su eserciti europei, uscita unilaterale dalla NATO e altre fantasie del genere, sarebbe capire esattamente qual è il margine di manovra che l’egemone intende concederci. Una volta capito questo e definiti i nostri obiettivi strategici, andrebbe delineata una tattica adatta allo scopo.

Per quanto riguarda la difesa, ad esempio, sicuramente gli USA sono disposti a lasciare che i paesi europei irrobustiscano il proprio settore militare, però a condizioni loro. Difficile quindi pensare che si possano mettere in piedi, ad esempio, consorzi di aziende militari tali da renderci completamente indipendenti dai sistemi d’arma americani. Forse, però, qualche margine di manovra per guadagnare un pochino di indipendenza tecnologica c’è. A questo proposito, per esempio, ho contribuito alla stesura del Political Position Paper (PPP) elaborato dal partito ORA! che auspica l’abbandono da parte della PA del software proprietario attualmente in uso (in pratica, oggi interamente o quasi prodotto da aziende a stelle e strisce) in favore di software open-source6. Questo rappresenterebbe un primo passo in un percorso che, in linea di principio, dovrebbe poi comprendere anche le infrastrutture nevralgiche, come ad esempio il cloud, sia da un punto di vista hardware che software. In quest’ottica, iniziative come lo European Chips Act dovrebbero essere in cima alla nostra to do list, altro che superbonus e altre sciocchezze del genere7. Da notare che un approccio di questo tipo avrebbe poi enormi e benefiche ricadute anche in ambito economico, nel senso che promuoverebbe la nascita e la crescita di settori ad alto valore aggiunto, oggi poco sviluppati in Europa. Nel complesso, tuttavia, il bilancio di operazioni come queste con tutta probabilità sarebbe negativo dal punto di vista del benessere materiale. Come dimostrano tutte le nazioni geopoliticamente rilevanti — USA, Cina, Russia, Iran, Turchia, Etiopia, ecc. —, è difficilissimo avere la botte piena e la moglie ubriaca. Bisogna essere consapevoli che il prezzo da pagare per (ri)acquisire una certa importanza sul piano geopolitico comporta uno scadimento della nostra qualità di vita. Siamo disposti a pagarlo? Di fronte alla necessità di investire pesantemente nella difesa, siamo disposti a mettere mano al welfare se non avessimo spazio fiscale per fare entrambe le cose? Siamo disposti a trattare il diritto internazionale per quello che è, cioè una nobilissima enunciazione di principio sulla carta che, in pratica, traduce meramente i rapporti di forza esistenti tra le potenze? Siamo disposti a rivedere le nostre politiche commerciali? A questo proposito, prendo spunto da un recente fatto di cronaca, cioè il fallimento di iRobot, per ipotizzare con un esempio concreto cosa significa mettere in pratica un approccio di questo tipo. In campo commerciale, pensare di poter fare del libero scambio con un paese come la Cina è illusorio. Una nazione di quel tipo non fa trading nel senso liberista, cioè massimizzando l’efficienza del sistema produttivo nel suo complesso e aumentando la ricchezza di tutti gli attori coinvolti. Al contrario, il flusso delle merci è praticamente unidirezionale e perfettamente funzionale all’obiettivo dell’Impero di Mezzo di fare leva sulla propria potenza economica, costruita inondando di prodotti i mercati globali, per trasformarla in potenza geoeconomica. Si pensi, ad esempio, a che sciocchezza stiamo commettendo nell’importare massicciamente dispositivi smart di produzione cinese come i “semplici” robot per la pulizia della casa piuttosto che le automobili. Oggi questi prodotti sono potenzialmente agenti di spionaggio formidabili (esattamente come le piattaforme social, come dimostrato dal caso TikTok) con i quali mappare millimetricamente non solo il territorio degli altri paesi8 ma pure l’interno degli edifici oltre che ovviamente a raccogliere altre montagne di dati grazie al loro ricco set di sensori! Per non parlare poi dei prodotti destinati alle infrastrutture nevralgiche (non a caso gli USA ci hanno spinto a cancellare tutti gli accordi per l’infrastrutturazione 5G basata su apparati cinesi).

Infine, con buona pace dei liberisti di casa nostra, il ruolo dello Stato nel controllo delle aziende strategiche andrebbe rafforzato, prendendo ad esempio nazioni come USA e Cina (su quest’ultima, segnalo questo bel video di Ben Gordon). Il perseguimento degli obiettivi strategici, per quanto detto in precedenza, confligge generalmente con lo scopo delle aziende e degli attori economici classicamente intesi e quindi non può che essere lo Stato a imporre le priorità. Questo eviterebbe, inoltre, di commettere errori clamorosi come la cessione di Piaggio Aerospace, sciagurato episodio già citato in conclusione del post precedente.


  1. Per inciso, non sorprende il fatto che ci siano anche soggetti privati che sfruttano abilmente questi eventi per cavalcarli e farci un mucchio di soldi, accodandosi docilmente all’amministrazione di turno. Ma, ai fini delle questioni strutturali che questo post cerca di analizzare, questo aspetto è irrilevante perché trattasi di fenomeno secondario che non ha influenza sui motivi fondamentali per cui in ambito geopolitico accadono i sommovimenti a cui assistiamo quotidianamente, soprattutto in un momento così turbolento come questo. ↩︎
  2. Non va dimenticato che la geopolitica è la disciplina delle costrizioni in quanto tutti devono fare i conti con i vincoli a cui devono sottostare, siano essi di natura geografica, demografica, militare, ecc. ↩︎
  3. Coerentemente con tutta la dottrina economica e indipendentemente dalla variante a cui si è più affezionati, gli “economicisti” postulano che gli esseri umani siano fondamentalmente degli esseri razionali. Cosa ampiamente smentita dalle neuroscienze in cui è famosa la metafora che rappresenta la componente razionale del nostro cervello come un minuscolo conduttore di un gigantesco elefante, rappresentante la parte irrazionale. ↩︎
  4. Nel corso delle chiacchierate di cui ho parlato nel post precedente, ho potuto toccare con mano la diffusa convinzione alle nostre latitudini che i criteri occidentali siano gli unici ↩︎
  5. Purtroppo ho registrato con rammarico che parecchi iscritti al partito ORA! sostengono queste puerili argomentazioni. Confesso che speravo di trovare in questa organizzazione un livello di analisi di questi fenomeni più elevato. ↩︎
  6. Il PPP è confluito nella tesi programmatica “Comuni, province e regioni”, approvata dall’assemblea nazionale e a breve disponibile qui. ↩︎
  7. Per dare un’idea della follia che siamo stati riusciti a fare, l’Italia da sola con il superbonus ha letteralmente buttato via qualcosa come 5 volte l’importo destinato a finanziare il Chips Act. ↩︎
  8. La Cina, che ha perfetta consapevolezza geopolitica, non a caso si pose il problema rispetto alle auto Tesla circolanti nel proprio territorio. ↩︎