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Ad ogni modo, al netto di queste considerazioni, quello che mi ha colpito di più in relazione alla riflessione filosofica attorno a questi temi, è l’”impreparazione” con cui la rapida diffusione delle tecnologie AI ha colto la comunità dei filosofi. Nel corso del master è emersa infatti prepotentemente la difficoltà, anche da parte di chi se ne occupa professionalmente, nell’inquadrare questi fenomeni, sia da un punto di vista tecnico (penso ad esempio agli aspetti epistemiologici), che pratico (ad esempio in ambito legislativo). Da osservatore esterno, mi aspettavo ingenuamente che la filosofia, essendosi impegnata per millenni su questi temi (Colurcio, 2019; Descartes, 2002), nonostante non abbia avuto a disposizione per lungo tempo delle realizzazioni concrete dei concetti teorizzati, sarebbe stata in grado di servirci su un piatto d’argento tutta una serie di risposte “pronte all’uso” per gestire nella maniera migliore possibile le sfide che ci si stanno presentando (ad esempio quelle di natura etica). Se da un lato qualcuno potrebbe sostenere che compito della filosofia non è tanto quello di dare le giuste risposte, quanto quello di formulare le giuste domande (ORBITS - Luciano Floridi, 2025), la constatazione di questo stato di cose mi ha fatto riflettere su quanto profonde siano le implicazioni della diffusione di queste tecnologie, visto che, a quanto pare, sono capaci di mettere in crisi persino le persone più attrezzate dal punto di vista intellettuale e cognitivo per maneggiarle a dovere. Le potenziali conseguenze nella società sono infatti così penetranti che la filosofia contemporanea è stata obbligata a “rispolverare” tanti dei quesiti più profondi con i quali ha avuto a che fare sin dalla sua nascita, riproponendoli in forma rivista ed aggiornata, alla luce dei cambiamenti potenzialmente strutturali che si intravedono distintamente all’orizzonte. Penso ad esempio alla speculazione introspettiva circa la natura intima dell’umanità, tornata in auge prepotentemente come conseguenza di un inevitabile rischio che corriamo ormai quotidianamente: attribuire cioè a delle macchine caratteristiche ritenute fino ad oggi di esclusiva pertinenza umana come intelligenza, empatia o consapevolezza1. Su questo filone, ho trovato di estremo interesse il dibattito svolto in aula circa i possibili cambiamenti a livello antropologico a cui l’ibridazione («Transhumanism», 2025) con queste tecnologie porterebbe. Cambiamenti che culminerebbero con la singolarità2 associata al passaggio all’era postumanista («Posthumanism», 2025). Mi domando però se la Tecnica non ci abbia già cambiato. Siamo così sicuri di affermare che la nostra natura sia la stessa dei nostri antenati di 300.000 anni fa, epoca in cui la scienza atualmente colloca la comparsa della specie Homo sapiens sul nostro pianeta («Homo sapiens», 2025). Da un punto di vista storico, si potrebbero inquadrare questi accadimenti nel contesto più ampio della crisi della filosofia che si è verificata in seguito al successo dirompente della sua figlia più illustre, la Scienza, che, da un certo punto di vista, l’ha spodestata dal trono dei saperi. Nel corso del master, ho appreso infatti come la comunità filosofica di fatto non solo abbia accusato il colpo, ma debba ancora riprendersi dallo shock conseguente, rimanendo per secoli sostanzialmente impotente ad osservare l’affermarsi dirompente delle discipline scientifiche e del loro “braccio armato” (Fini, 2006), la tecnologia, che hanno letteralmente sconvolto la nostra esperienza di vita in un arco di tempo molto breve, se comparato con la presenza della nostra specie sulla Terra. Frequentemente, un momento di crisi può anche essere visto come una opportunità6 però. Credo che il periodo che stiamo attraversando non faccia eccezione. Mai come in questo momento c’è infatti la necessità del “sapere che contiene tutti i saperi” come strumento di pensiero che accompagni il dipanarsi di un fenomeno tanto dirompente quanto interdisciplinare3. Credo sia indispensabile la visione olistica che solo un approccio filosofico può avere per penetrare un processo tanto pervasivo e profondo da condizionare in potenza in maniera pesante, simultanea e rapida tutti o quasi gli ambiti della nostra esperienza di vita. Inutile dire che gli scenari che tento di dipingere in questo
elaborato non sono che la punta dell’iceberg di tutto ciò che verrà influenzato dalla diffusione a macchia d’olio del digitale combinato con l’intelligenza artificiale — in tutte le vesti tecnologiche che questa assumerà. Etica, socialità, politica, spiritualità, biologia, psicologia e così via. Non c’è virtualmente ambito della nostra esistenza che possa dirsi sicuramente esentato dal fare i conti con la rivoluzione che sta arrivando. Attrezzarsi per riuscire a governarla piuttosto che subirla credo debba essere la priorità numero uno della filosofia moderna. Occasione formidabile e forse irripetibile per un suo solenne ritorno nell’olimpo della conoscenza.

Paradigma umano

Ritornando alla riflessione sull’essenza profonda della nostra specie, è evidente che questa possa essere formulata come una delle più antiche e ancestrali domande su cui la filosofia si è arrovellata da sempre: chi siamo? Non ho certo la pretesa di poter azzardare una risposta a un tale quesito. Mi permetto però qualche ragionamento su di esso in riferimento al rapporto dell’umanità con l’AI e le tecnologie digitali. Mi riconduco all’approfondimento svolto in aula in merito al tema della relazione tra esseri umani e tecnica (Tecnica - Enciclopedia, s.d.), ennesima questione evergreen dell’indagine filosofica. In sintesi, possiamo affermare che, da quando abbiamo iniziato ad interagire con i suoi prodotti, la tecnica ci ha cambiato nella nostra sfera più profonda? Le evidenze storiche suggerirebbero di sì. Rapportarsi con oggetti — sia fisici che virtuali — creati per mezzo delle nostre abilità tecniche, sin dalle origini della nostra specie ne ha condizionato l’evoluzione, come minimo sotto il profilo culturale. È lecito spingersi oltre, ipotizzando che questo possa essere avvenuto persino a livello biologico?
Si pensi ad esempio ai cambiamenti delle nostre abitudini alimentari in seguito all’invenzione dell’agricoltura o all’apprendimento della capacità di servirsi del fuoco, entrambi prodotti dalla techne (τέχνη). Senza contare i casi in cui le innovazioni introdotte potrebbero aver influito anche sulle nostre facoltà cognitive e cerebrali, come nel caso della scrittura che suscitò non poche preoccupazioni ai filosofi greci (Platone, s.d.) che temevano che questa avrebbe annichilito le nostre abilità mnemoniche4. Livello interessantissimo da esplorare, ammesso e non concesso che sia in pratica possibile farlo. Dal punto di osservazione della biologia, i nostri antenati di trecento millenni fa, per definizione, sono tecnicamente come noi in base al principio della capacità di generare prole fertile nel caso di un ipotetico accoppiamento («Specie», 2025). Detto questo, chi di noi se la sentirebbe di affermare che questi individui sono olisticamente come noi ovvero che, in conseguenza dell’incessante interazione con ciò che la nostra tecnica ha instancabilmente prodotto in questo amplissimo
arco di tempo, siamo realmente “rimasti gli stessi”? Prendo come esempio quello che può essere ritenuto lo strumento tecnico per eccellenza, il linguaggio, frutto dell’abilità che abbiamo sviluppato nel manovrare con sapienza la materia del nostro stesso corpo — corde vocali, polmoni, muscoli, ecc. — per dare fisicità “esterna” all’universo dei nostri pensieri, sostanzialmente ingabbiati in reazioni biochimiche e fenomeni elettrici confinati nel nostro encefalo fino all’invenzione del linguaggio. Non è forse proprio la filosofia ad aver innescato molti secoli fa una riflessione sul ruolo del linguaggio in relazione al nostro pensiero e a quanto i due si siano vicendevolmente influenzati, retroazionandosi circolarmente senza
soluzione di continuità?
Linguisti e neuroscienziati lavorano a svariate ipotesi sulla questione (Baldo, 2018; Fedorenko et al., 2024; «Linguaggio, pensiero e realtà Benjamin Lee Whorf», s.d.) senza ancora esserne venuti a capo in via definitiva. Interrogato sull’argomento, AI Chat (AI Chat, s.d.) risponde così:

Il linguaggio influenza l'evoluzione biologica degli esseri umani?
Il linguaggio ha avuto un ruolo fondamentale nell'evoluzione biologica e culturale
degli esseri umani, anche se non si può dire che influenzi direttamente la struttura
genetica del nostro organismo. Tuttavia, il suo impatto sulla nostra evoluzione è
stato profondo sotto diversi aspetti:
1. Selezione culturale e sociale: Il linguaggio ha permesso la trasmissione di
conoscenze, tecniche e culture da generazione in generazione, favorendo lo
sviluppo di società più complesse e adattabili. Questa capacità di comunicare
efficacemente ha contribuito alla sopravvivenza e al successo degli esseri umani.
2. Sviluppo cognitivo: La capacità di usare il linguaggio è strettamente legata allo sviluppo di funzioni cognitive avanzate, come il pensiero astratto, la pianificazione e la risoluzione di problemi. Questi aspetti hanno influenzato la nostra evoluzione biologica, favorendo l'espansione delle aree cerebrali associate al linguaggio.
3. Selezione naturale e genetica: Alcune teorie suggeriscono che il linguaggio possa aver esercitato una pressione selettiva su specifiche caratteristiche genetiche, come le aree cerebrali coinvolte nel processamento linguistico (ad esempio, le aree di Broca e Wernicke) o sulla struttura delle corde vocali e la capacità di articolare suoni complessi.
4. Coevoluzione di geni e cultura: Studi recenti indicano che alcuni geni, come il FOXP2, coinvolti nelle capacità linguistiche, potrebbero aver subito cambiamenti evolutivi specifici in Homo sapiens. Questa coevoluzione tra geni e capacità culturali ha contribuito a rendere il linguaggio una caratteristica distintiva dell'essere umano.
In sintesi, il linguaggio non ha soltanto influito sull'evoluzione culturale, ma ha
anche esercitato un'azione indiretta sull'evoluzione biologica, favorendo lo
sviluppo di caratteristiche cerebrali e genetiche che hanno reso possibile questa straordinaria capacità umana.


A quanto pare, possiamo quindi dire che non è del tutto infondato ipotizzare che ci possa essere, anche se per via indiretta, un’influenza del linguaggio — raffinatissimo prodotto della techne — persino sulla nostra evoluzione propriamente detta, cioè intesa come fenomeno biologico5. In questa ipotesi, l’ibridazione sempre più spinta tra la nostra specie con le realizzazioni dell’intelligenza artificiale potrebbe essere vista, sotto il profilo evolutivo, come un ulteriore esempio di circolarità tra la nostra specie e i prodotti da essa stessa
generati per mezzo della tecnica. Quindi nulla di nuovo, apparentemente. In quest’ultimo caso, però, l’evoluzione potrebbe raggiungere livelli tali da far venir meno la capacità di generazione di prole fertile, portando di conseguenza alla nascita di una nuova specie, ammesso e non concesso che questa conservi la capacità di riprodursi. Mi fermo qui con le speculazioni predittive e provo a tornare alla domanda che mi sono posto inizialmente: ferma restando la definizione di specie e stanti i legami tra linguaggio ed evoluzione, ce la sentiamo di dire che noi siamo olisticamente gli stessi di 300.000 anni fa? Io mi sento di dare una risposta negativa. Mi chiedo infatti come mi comporterei se mi trovassi di fronte un individuo vissuto in quell’epoca. Anche se indiscutibilmente si tratterebbe di un essere vivente a me conspecifico, lo considererei una persona? Al di là della brutalità con cui ho esposto il quesito che suona odiosamente razzista, mi chiedo sinceramente se la distanza abissale in termini culturali e di capacità cognitive che ci separerebbe non sarebbe sufficiente per considerarci reciprocamente altro da noi stessi6. Nutro il medesimo dubbio nei confronti della nostra possibile evoluzione ibridata con l’AI e altre forme di tecnologie digitali: anche se non ancora giunta ad un livello tale da aver già determinato una discontinuità biologica secondo il criterio appena ricordato, sarebbe una condizione, a mio avviso, comunque sufficiente per poter parlare di un nuovo paradigma umano. Perché, anche escludendo lo scenario estremo della discontinuità, penso che stiamo comunque gettando le basi per la creazione di un qualcosa di diverso rispetto a ciò che siamo oggi. A mio parere, la cifra dell’umanità che la distingue da qualsiasi altra forma di vita è la nostra consapevolezza di essere mortali. Ritengo questo tratto talmente fondante che, anche se da un punto di vista scientifico non è corretto, farei coincidere la nascita della nostra specie con l’istante in cui abbiamo fatto nostra questa cognizione, fardello esistenziale da cui non ci siamo più separati e con cui da quel momento facciamo i conti, uscendone spesso sconfitti7. Se rendessimo momentaneamente per buona questa definizione di specie umana, potremmo assistere ad una mutazione del suo paradigma anche in assenza di modifiche strutturali della nostra biologia. Alla luce della centralità del rapporto con la morte nella nostra esistenza, non sorprende per nulla il fatto che si stiano sviluppando numerose applicazioni, basate su tecnologie digitali e intelligenza artificiale, che hanno a che fare con questo. A titolo di esempio, sono personalmente entrato in contatto con una nascente startup italiana (Vivere per Sempre, s.d.) il cui scopo è quello consentire di costruire, quando si è ancora in vita, un proprio avatar digitale che “incarna” la nostra autobiografia. Nel momento del decesso, questo avatar entra in funzione come nostro surrogato e con esso i nostri parenti ed i nostri amici possono interagire senza apparente soluzione di continuità rispetto alla nostra scomparsa. Il livello tecnico dell’implementazione — il timbro della voce, il modo di pensare ed esprimersi, ecc. — dovrebbe essere tale per cui il realismo del “rimpiazzo” dovrebbe essere sufficiente per ingannare almeno in parte il nostro cervello da non percepire completamente la perdita della persona cara, mitigando quindi significativamente l’afflizione che generalmente accompagna un lutto. Visto così, sembrerebbe l’ennesimo tentativo da parte dell’essere umano di scansare l’esperienza dolorosa. A una prima analisi, nulla di nuovo, dato che anche la rimozione della sofferenza è un tratto che ci accompagna da sempre — basti pensare alla pletora di prodotti farmacologici che abbiamo a disposizione per combattere il dolore fisico o alle molteplici dipendenze da sostanze di vario tipo che assumiamo per sfuggire (illusoriamente) al tormento psicologico. Cambiare alle radici il nostro rapporto con la morte, virtualmente eradicandola dalla nostra esperienza di vita, non potrebbe alterare in profondità la nostra natura? L’elaborazione del lutto (lucia, 2022), ad esempio, potrebbe venire completamente stravolta con conseguenze imprevedibili. Per non parlare dell’”obiettivo grosso”, il Sacro Graal della nostra angosciosa peregrinazione terrena, cioè la possibilità di conquistare l’immortalità. Le ipotesi di trasferimento della propria mente (qualsiasi cosa questo termine significhi) in una macchina destinata a rimanere funzionante in linea di principio per l’eternità comporterebbero naturalmente sconvolgimenti ancora più profondi dagli esiti completamente impronosticabili. Il nostro paradigma sembra essere davvero piuttosto vicino a diventare qualcosa di altro.

La citazione in apertura di questo post è tratta dal secondo capitolo dell’elaborato che ho scritto come prova conclusiva del master citato in qui. Suppongo che il lettore arrivato fino a questo punto si chieda cosa c’entri tutto questo con il titolo del post.

Per certi versi, buona parte della produzione culturale dell’umanità — o forse addirittura tutta? — discende dal nostro rapporto con la morte. Essendo consapevoli della sua ineluttabilità, abbiamo tentato in tutti i modi di colmare il vuoto esistenziale che ne deriva. La potenza creativa della nostra mente ha fatto il resto, partorendo tutto ciò che chiamiamo cultura, dalla fanciullesche fantasie autoconsolatorie che chiamiamo religioni, fino alla magnificenza delle arti e delle scienze, vette tuttora ineguagliate del nostro intelletto8. Rimane il fatto che nessuno di questi nobili tentativi sia riuscito a dare un credibile e universalmente accettato significato alla nostra esistenza. Spero di non shockare chi legge se scrivo che anche la geopolitica rientra in questa categoria. So che può sembrare paradossale in quanto questa disciplina viene comunemente associata al cinico, freddo e animalesco obiettivo strategico fondamentale di qualsiasi collettività, cioè quello di non soccombere per mano altrui, e non sto certo affermando che questo sia errato. Da una prospettiva filosofica, però, la geopolitica può essere molto di più. Può infatti essere vista anche come formidabile riempitivo dell’intrinseca mancanza di significato delle nostre vite. Quando essa trascende l’alveo della mera sopravvivenza e diventa anche strumento di dominio sulle altre collettività assumendo quindi fattezze di imperialismo, la compiutezza geopolitica rappresenta anche un seducente strumento per accedere al fine ultimo della gloria eterna, cioè a una raffinatissima forma di immortalità. Prova ne sono i gloriosi imperi del passato, primo fra tutti quello Romano, a cui puntualmente innumerevoli potenze del mondo occidentale — ancora oggi — si sono ricondotte nella narrazione di sé e della loro missione universalistica. A secoli di distanza dalla sua definitiva caduta, le gesta di quei popoli continuano a riecheggiare nella memoria collettiva di miliardi di esseri umani, impregnandone la cultura, la lingua, il simbolismo, la fantasia. Pur essendo perfettamente consapevoli della loro finitezza,

Memento mori

gli antichi Romani erano altrettanto ben consci che l’altissimo prezzo che avrebbero pagato per il sostentamento dell’Impero era assolutamente giustificato. Ha rappresentato per loro il fuoco che ha alimentato e tenuto viva la loro voglia di vivere e, soprattutto, di lottare. Consapevoli che si muore realmente non quando il nostro cuore smette di battere, ma quando nessuno ha più memoria di noi, il loro sforzo è stato ampiamente ripagato, come dimostra il fatto che siamo ancora qui a parlarne.

Urbs aeterna


  1. In realtà, l’AI prescinde dalla tecnologia utilizzata per implementarla a livello pratico. Stante la situazione attuale, per semplicità possiamo però assumere con buona approssimazione che le sue realizzazioni di effettivo interesse sono quelle che fanno appunto uso di tecnologie digitali quindi di natura elettronica/informatica. ↩︎
  2. Come è noto, ormai tutti i principali motori di ricerca on-line hanno integrato un motore AI che completa il risultato con una sintesi dei documenti reperiti con l’algoritmo tradizionale. Questa la sintesi (denominata AI Overview) che mi è stata proposta nel corso della stesura di questo capitolo (Maggio 2025) da parte di Google (stringa di ricerca utilizzata: “singularity posthumanism”).

    The technological singularity, often discussed in posthumanist circles, is a hypothetical point in time when artificial intelligence surpasses human intelligence, leading to rapid and unpredictable technological and societal change. Posthumanism, a philosophical movement, grapples with the implications of this transformation, often exploring the potential for humans to transcend their biological limitations and merge with technology. Here’s a more detailed look:

    What is the Technological Singularity?
    A Hypothetical Future: The singularity describes a point where technology’s growth becomes uncontrollable and irreversible, leading to a radical transformation of reality.
    Superintelligence: It’s often envisioned as a future where artificial intelligence surpasses human intelligence, becoming superintelligent.
    Rapid Change: The singularity is characterized by rapid and unpredictable technological advancements, potentially leading to significant societal changes.


    Posthumanism and the Singularity:
    Transhumanism: The singularity is often discussed in the context of transhumanism, which explores the possibility of enhancing human capabilities through technology.
    Beyond Human Nature: Posthumanism, in general, questions traditional notions of “human nature” and explores the potential for humans to move beyond their biological limitations through technological advancements.
    The Event Horizon: Some posthumanist thinkers view the singularity as a kind of “event horizon,” a point of no return beyond which humanity’s role in the future is unclear.

    Cultural and Historical Context:
    Origin of the Idea: The concept of the singularity has roots in various scientific and philosophical ideas, including mathematical models of growth, cybernetics, and even cosmological theories.
    Acceleration of Progress: The idea of a singularity is often linked to the notion of accelerating technological progress, suggesting that technological advancements are becoming increasingly rapid.
    Cultural Significance: The singularity has become a prominent topic in cultural discussions, sparking debates about the future of humanity and the potential impact of artificial intelligence.


    Interessante notare che analoga ricerca effettuata con stringa equivalente in italiano non produce alcuna sintesi, ennesima conferma che al momento, in ambito linguistico, la lingua anglosassone è per ovvi motivi di gran lunga la più e meglio supportata. ↩︎
  3. Si pensi, ad esempio, ai profondi mutamenti del nostro rapporto con la religiosità e la spiritualità, sintetizzati approssimativamente in uno dei più celebri aforismi del filosofo tedesco. ↩︎
  4. A questo proposito, si cita spesso il film Her («Her (2013 Film)», 2025) che delineò
    perfettamente la nascita di dinamiche affettive tra un essere umano e un’intelligenza artificiale.
    Quello che è sorprendente è il fatto ormai consolidato che questo tipo di situazioni si possono
    verificare anche in assenza di una macchina reale che simuli la fisicità di una persona («ChatGPT può fare affezionare le persone. Le evidenze di due studi paralleli», 2025), con possibili conseguenze anche drammatiche come testimoniato da recenti fatti di cronaca (Caso adolescente suicida a causa di un chatbot, giudice Usa, 21:00:02 +02:00). Andando un po’ indietro con la memoria, a pensarci bene non è nulla del tutto nuovo in quanto qualcosa di molto simile si verificò alla fine del secolo scorso quando fu coniata l’espressione “effetto Tamagotchi“
    («Tamagotchi», 2025). ↩︎
  5. Dopo la stesura di questo paragrafo, mi sono imbattuto nel recente articolo Mente, fuoco, scrittura e smartphone di Jaime D’Alessandro (Mente, fuoco, scrittura e smartphone | Tecnologie | Fondazione Leonardo, s.d.) il cui contenuto mi ha sorpreso non poco. Il pezzo contiene un’intervista al prof. Gallese, scopritore assieme ad altri dei neuroni specchio («Vittorio Gallese», 2025). Gallese lascia intendere non solo che dà praticamente per acquisito il fatto che l’interazione con strumenti tecnici comporta modifiche a livello biologico, ma arriva addirittura ad utilizzare con una certa disinvoltura il termine «evoluzione» in riferimento agli effetti di questa relazione! ↩︎
  6. Per realizzare quanto abissale possa essere questo iato, basti pensare a quanto sono variati i canoni culturali e morali nell’arco di poche generazioni. Comportamenti che oggi ci sembrano aberranti erano perfettamente normali non molti decenni or sono. ↩︎
  7. A quanto sembra, diverse culture antiche avevano giocato meglio di noi questa partita. Preso atto dell’impossibilità di vincerla, avevano almeno trovato il modo di pareggiarla. Accettando l’inevitabilità della morte con equilibrio, queste culture avevano trovato il modo di evitare che la consapevolezza della nostra finitezza angosciasse la nostra intera esistenza. E ci riuscirono senza far ricorso a invenzioni ingannevoli — ovvero le religioni che postulano una vita ultraterrena—, tentativo di autoconsolazione del tutto comprensibile, ma che trovo francamente per noi umiliante e poco dignitoso. ↩︎
  8. Tra non molto, forse superate dalla superintelligenza artificiale, ma questa è un’altra storia. ↩︎

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